mercoledì 26 febbraio 2014

CATETERI E PAPERE : Riflessioni su vite che cambiano

D.ssa Raffaella Marchi
Counselor Relazionale Prepos


Ovunque mi giri ci sono sedie a rotelle, cateteri, respiratori.
Tanto silenzio, alternato da voci qua e la spesso risate.
Seguo il corridoio, in fondo c’è la mensa e vado a fare il the.
Due uomini in carrozzina parlottano, seduti non per loro volontà, le gambe inermi legate con una banda elastica nera, i jeans semivuoti. Gli passo davanti e saluto con un: buongiorno! Uno di loro, risponde prontamente, l’altro in una frazione di secondo abbassa lo sguardo sulle mani posate sulle ruote e poi mi guarda, solo allora mi risponde. Il suo compagno gli fa uno sguardo di rimprovero e coraggio, deve probabilmente ancora metabolizzare la sua nuova situazione.

Dopo ormai un mese che frequento il C.T.O di Firenze ed osservo ho notato tanti piccoli dettagli  relazionalmente importanti: al muro sono appese fotografie scattate da un ex paziente che ha colto sguardi, oggetti, gesti che raccontano vite intere, vite che ad un bivio han dovuto svoltare; il mercoledì un volontario da ormai 15 anni si aggira nelle camere proponendo in un improbabile accento toscano influenzato ancora dal siciliano i suoi piatti. Insieme ai suoi baffi bianchi arriva puntuale ogni settimana col cestino delle scorte: “per far la roba bona si deve portà da casa la roba bona!” e spadella un pomeriggio intero, salvo poi rincorrerti con un piatto di pasta con le sarde per il corridoio  se provi a non accettare.
Alla macchinetta del caffè le sedie son messe a semicerchio e le porte danno sui giardini da entrambi i lati.

Mi chiedo se, col mio temperamento libero e indipendente accetterei mai che mani estranee si prendano cura di me, mi lavino, mi girino, compiano i gesti che il corpo scollegato non sa più fare da sé.
Torno in stanza dopo essere uscita a prendere fiato, con le mani contro il muro e la testa fra le spalle. Mi appiccico il sorriso. Torno in stanza. Mia madre l’han portata a fare fisioterapia e vedo Rita, timida compagna di stanza appollaiata sulla sua carrozzina che tenta di trovare qualcosa dall’armadietto, mi offro di aiutarla e lei, imbarazzata rifiuta, ma è in difficoltà, negli ultimi mesi è dimagrita sino a sembrare un uccellino e solo il fatto di stare seduta le procura dolori alle ossa del bacino. Tiro fuori il mio lato sballone e le dico che siamo compagne di culo! Lei sorride e le racconto la mia disavventura. Il ghiaccio si è sciolto e mi dice che vorrebbe fare la tinta ai capelli. “Perfetto! Dai giochiamo alle estetiste!” le dico. Accetta, più per vergogna che per altro. Sgancio le ruote della carrozzina, le faccio fare un testa coda, le dico di togliersi la tuta buona e la aiuto a cambiarsi. Sotto ha un busto grottesco, io lo guardo con aria curiosa, da delirante e le dico: posso toccarlo? Lei mi guarda stranita, lo osservo per quello che è: un marchingegno che la sostiene da quando un lipoma gigante 36 anni fa le ha avvinghiato la colonna. Poi con assoluto distacco l’aiuto, le racconto che stavo per fare uno scellerato acquisto, un’improbabile sottoveste strizzolina che avrebbe appianato i miei cicchetti, che sembrava uno strumento di tortura ma poi son tornata sui miei passi. Ridiamo a crepapelle.
Agguanto una traversina per la pipì, gliela fisso con due mollette da bucato intorno al collo, mi infilo i guanti, sfilo la cannuccia dalla coca-cola e mescolo la tinta. Sgommiamo in bagno e cominciamo a stendere la tinta, le faccio la cresta e lei ride. Arrivata sul lato sinistro si porta istintivamente la mano sopra all’orecchio. “Raffaella tengo una malformazione dalla nascita, se ti fa senso non ci passare la tinta!”, non mi ero accorta della sua protuberanza, svelta svelta  mi sollevo i capelli e le faccio vedere che anche a me manca un pezzo d’orecchio, quindi siamo pari. Stringo i denti e le accarezzo la protuberanza vincendo le mie remore sulla disabilità fisica. Lei si rilassa e finiamo di stendere la tinta mentre finalmente Rita si scioglie e mi racconta che iniziò a sentirsi male dopo la nascita di suo figlio, i pellegrinaggi in Italia e all’estero, la malasanità e la condanna alla carrozzina e ai dolori. Poi la crisi economica che porta via l’attività di famiglia e poi la casa. C’è un clima denso in quel bagno d’ospedale, una bolla relazionale fra due sconosciute.
All’improvviso la porta si apre e le infermiere, tre, irrompono. Rimangono basite dalla scena, c’è tinta per capelli ovunque, io con i guanti da chirurgo brandisco minacciosa un pettine macchiato e abbiamo l’espressione di due bimbe colte con le dita nella marmellata. Scoppiamo tutte a ridere e mi dicono ma che fate? E io: giochiamo all’estetista se no che vita è!
Ci lasciano finire, torneranno dopo a fare il giro di medicinali, io faccio lo shampoo a Rita la pettino e le faccio una piega che nessuno le farà mai più…per fortuna.
Anche questo è counseling del buonumore e ha riempito la mia giornata di un sapore davvero pieno, spero anche all’invisibile Signora Rita.


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