“Prima di tutto vennero a prendere gli
zingari e fui contento perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti
zitto perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui
sollevato perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti ed io non
dissi niente perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me e non c'era
rimasto nessuno a protestare.”
Bertolt Brecht
Quando
avevo 17 anni lessi “Gli indifferenti” di Alberto Moravia e mi gelò il sangue
constatare che la medesima orribile indifferenza della protagonista mi
apparteneva.
Ero
capace di estraniarmi totalmente dalla coscienza del mio dolore e scinderlo da
me, per non precipitarci dentro.
Ovviamente
solo la maturità mi ha dato la coscienza chiara di non essere un “cuore di
ghiaccio”, come spesso ha voluto farmi credere mia madre, per potermi spremere
come un limone affettivo, per potersi lei, riconosciuta come debole, appoggiare
su di me con tutto il peso della sua depressione.
Oggi,
ultraquarantenne, raggiungo, al contrario dei miei 17 anni, con estrema
facilità picchi di dolore profondissimi
e non scappo e li chiamo con il loro nome e li assaporo attraverso una
densità emotiva che qualcuno chiama “spessore umano”.
Di
quell’antica anestesia emozionale, che qualcuno curò, rimane solo la mia quasi
assoluta impossibilità di piangere in qualunque circostanza, anche quando il
mio corpo, somatizzando, grida rabbia e dolore.
E
leggendo queste riflessioni di Brecht sono stata incredibilmente felice di
dirmi:
“Io
non sono così. Io sono capace di senso etico e di combattere contro
un’ingiustizia, di combattere anche contro chi amo per vedere rispettato il
diritto di tutti ad esser liberi e felici”.
(Testimonianza
rielaborata di una ex paziente)
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