domenica 2 febbraio 2014

BISOGNI DEL COUNSELOR, DISTORSIONI DELLA RELAZIONE D’AIUTO E AFFETTIVITA’








Esistono molti bisogni individuali del counselor, (in quanto essere umano più o meno evoluto) che possono trasformarsi nella relazione d’aiuto in vere e proprie distorsioni gravemente disfunzionali, che, oltre a interferire con il buon esito del counseling, possono peggiorare lo stato del cliente, che potrebbe trovarsi ingabbiato in un inganno relazionale.
La persona che ha bisogno di approvazione e riconoscimento, può rendersi disponibile ad aiutare per ricevere elogi e gratificazioni. Questa persona, per non deludere le aspettative altrui, tende a darsi indiscriminatamente, credendo di poter essere stimata/amata solo per ciò che dona e non per ciò che è. Altri possono dare in funzione di ciò che considerano giusto o sbagliato in senso assoluto e aprioristico, senza minimamente tenere in considerazione i desideri e le inclinazioni altrui.

In altri casi ancora il dare non è in funzione del singolo e dei suoi bisogni, bensì di un interesse superiore (patria, scienza, chiesa, ecc.), che, diventa la ragione suprema per giustificare qualsiasi comportamento anche sadico. Accade così, per esempio, quando i medici, con lo scopo dichiarato di favorire l’elaborazione del lutto, obbligano la donna a vedere il feto abortito. Oppure, quando sempre i medici sbattono in faccia al paziente una diagnosi infausta, dichiarando di voler favorire la presa di coscienza.

Dietro a tanta sollecitudine troppo spesso, oltre al senso di frustrazione e impotenza, si nasconde vero e proprio sadismo, da cui la classe medica è afflitta in dosi massicce.

D’altra parte, nella formazione di molti operatori sociali (medici, psicologi, assistenti sociali, ecc) viene bandita l’affettività e, di conseguenza l’umanità nella relazione d’aiuto.

Per garantire l’efficacia degli interventi e la lucidità decisionale, oltre che proteggersi dal coinvolgimento emotivo, ai giovani operatori viene richiesto di approcciarsi al paziente mantenendo le giuste distanze, a favore di un distacco relazionale che spesso diviene cinismo e indifferenza.

Così, l’attenzione fluttuante e la benevola neutralità di freudiana memoria vengono considerati strumenti indispensabili per consentire al paziente la guarigione e per permettere a chi interviene di non bruciarsi, scivolando in burn out.

Eugenio Borgna afferma criticamente: “Nel modello biologista non si deve provare commozione di fronte ai pazienti che si trasformano in mero oggetto di conoscenza.” (Le intermittenze del cuore, Feltrinelli, 2003, p.34).

D’altro canto, quando le variazioni emozionali divengono semplici risposte fisiochimiche, che possono essere controllate attraverso farmaci, l’incontro con la persona, il dialogo e la condivisione rappresentano un superfluo, che, paradossalmente, nell’epoca del consumismo sfrenato viene etichettato come inutile, scarsamente efficace ed eccessivamente costoso.

Così, l’asetticità relazionale diviene un dogma che gela la relazione con il paziente, che, codificata in protocolli comportamentali e temporali, perde il suo potere curativo e avvilisce progressivamente l’utente, ma anche l’operatore, che, blindato in un autoinganno, resta privo del senso del suo dare professionale.

D’altronde, il donare di sé all’altro può essere efficace benevolenza e autentica generosità solo quando le relazioni sono scaldate dall’affettività, dal desiderio di condivisione e comunione.

Nell’affettività i principii non diventano dogmi e burocrazia, bensì valori, che consentono l’evoluzione individuale e collettiva. Ciò richiede sapienza, ma anche determinazione, quel saper render sacra e solenne una azione, un’offerta all’altro, che diviene donazione di sé per l’altro. L’individuo può darsi così solo nel caso in cui abbia consapevolezza piena di sé e dell’altro, di quali sono i propri confini. Ci vuole grande maturità e una personalità solida per non farsi tentare dal ricorso all’autoinganno, per ascoltare l’altro nelle sue affermazioni e nel suo silenzio, per stare con lui proprio, per dare a lui, per fare pienamente con lui nella coscienza di ciò che si fa, si dà e si può dare. Perché la consapevolezza di sé presuppone l’umiltà del riconoscere i propri limiti, i propri bisogni e le proprie vulnerabilità

Ci vuole un coraggio bruciante per darsi e dare all’altro senza aspettative, nella coscienza dei suoi bisogni. Ci vuole coraggio perché laddove ci sia autoinganno, c’è una sorta di paracadute relazionale che protegge dalle delusioni, ma che rende il dono ambiguo e fraudolento.

Ci vuole il coraggio di liberarsi dalle difese, con un atto di fede verso l’altro e verso l’essere umano, verso la sua bontà innata e/o verso il suo potenziale miglioramento. Solo chi è sufficientemente centrato in se stesso, può sbilanciarsi così tanto verso l’altro da donare a lui senza proteggersi, ma solo proteggendo l’altro dal proprio bisogno di approvazione, riconoscimento e dal proprio delirio di onnipotenza.

Così, per esempio, dovrebbe operare un counselor, libero dai suoi dogmi e dai suoi bisogni nella relazione di aiuto.

Per esser capaci di una irradiazione affettiva tanto estesa e autentica, tanto disinvolta e al contempo responsabile, è necessario, in primis, la volontà di voler scaldare l’altro, di voler donare energia e solarità, il desiderio di coinvolgere se stessi e chi si è intorno in un percorso di miglioramento affettivo e, inevitabilmente etico.

Il presupposto di una tale dichiarazione di intenti, che favorisca la possibilità di mettere tra parentesi i propri bisogni relazionali e le proprie convinzioni irrazionali e stereotipate è, prima di tutto, come già sosteneva Fromm (l’arte di amare, p64-66)

La disciplina. Altra parola tanto temuta nel nostro edonistico mondo, la disciplina consiste nell’attitudine di rifuggire la mollezza e l’impigrimento comportamentale e morale, nell’autoinganno del “non c’è niente di male… non faccio male a nessuno… lo fanno tutti”.

La pigrizia, intesa come trascuratezza nel perseguire i propri obiettivi, o i propri valori, o l’autenticità relazionale è fattore primo che apre la strada all’imbroglio relazionale della condiscendenza, del concedersi per assoggettare l’altro. Ciò avviene quando l’individuo è incapace di stare nel presente, nell’esigenza dell’altro e, rifuggendo ansiosamente l’hic et nunc, proietta nel futuro l’altrui richiesta e perde il senso del significato di quel bisogno per orientarsi verso uno scopo o uno scenario personale.

Ciò essenzialmente implica di uscire dal pensiero narcisistico, imparando a discriminare ciò che nella nostra dedizione all’altro sia orientato da una visione parziale della realtà e della verità dell’altro.

D’altronde, quando la persona scivola eccessivamente nell’autoinganno, considerando la realtà esclusivamente dal proprio punto di vista, il rischio di precipitare in un delirio psicotico diviene elevatissimo. Ciò avviene quando sistematicamente il punto di vista personale, o del proprio ambiente di riferimento viene rigidamente assunto come bussola attraverso la quale orientare la propria apertura o chiusura verso gli altri, ovvero in base all’utilità o alla minaccia che gli altri possono rappresentare per il gruppo o per l’ideologia da esso espressa.

Uscendo, almeno in parte, dal narcisismo assolutistico e dal delirio di onnipotenza e onniscienza, è possibile liberarsi dalla necessità e dalla trappola dell’autoinganno, dandosi all’altro con i propri limiti, con ciò che si è e ciò che si ha, senza effetti speciali, che rendano all’altro un’immagine falsata ed idealizzata. Si riesce in questo solo quando l’altro, anche nel suo chiedere e aver bisogno, venga percepito “in grado di”, capace, come meritevole di stima e amore, come prezioso in se stesso.

L’individuo che riesce ad acquisire un livello sufficiente di imparzialità e libertà dal proprio narcisismo e dai dogmi che ne restringono la visione relazionale non può che essere un anticonformista, affrancato da vincoli che ne limitano l’espansione e, al contempo, consapevole dei limiti della propria umanità. Reso coraggioso dalla determinazione di affrontare solitudine e diversità, non ha bisogno di accattivarsi la benevolenza dell’altro e può donare di sé ciò che ritiene giusto, non quanto può legare l’altro, percepito come un altro da sé autonomo e altrettanto dotato, almeno in fieri, di anelito alla libertà e all’espressione matura delle sue risorse potenziali.


BIBLIOGRAFIA

BORGNA E., Le intermittenze del cuore, Feltrinelli, 2003.

 
CAROTENUTO A., Vivere la distanza, Bompiani Editore, 1998.

 
FROMM E., L’arte d’amare, 1970.

MASINI V., La prima regola dei Cavalieri di San Valentino, Prepos, 1997.

MASINI V., Dalle emozioni ai sentimenti, Prevenire & Possibile, 2009.

MASINI V., MAZZONI E., (2008), Manuale di psicologia generale transteorica per counselor, Università di Perugia

MASINI V., MAZZONI E., (2008), Manuale di psicologia relazionale transteorica per counselor, Università di Perugia

TROIANI D., La formazione del counselor: responsabilità verso se stessi e verso gli altri, 2006, www. prepos. it.

TROIANI D., Requisiti formativi per un operatore umanamente competente e socialmente utile, 2009, www. prepos. it.


 


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