AUTOBIOGRAFIA E CRESCITA PERSONALE
Queste pagine vogliono essere una guida alla riflessione su una tematica, quella dei disordini del comportamento alimentare, che sempre più investe gli adolescenti e, quindi, le famiglie.
L’intento è quello di focalizzare l’attenzione sui punti fondamentali della questione, sapendo che ogni caso è a sé, perché ogni persona ha la sua storia e la sua personalità.
Per tracciare una panoramica sintetica delle problematiche legate ai DCA si intende partire in primo luogo dai fattori sociali, ovvero dalla relazione con il mondo esterno. Successivamente si traccerà un breve quadro dei DCA più diffusi e delle peculiari espressioni relazionali (familiari, amicali, ecc), che assumono.
Infine si affronterà la questione della relazione funzionale con il cibo intesa nei termini di confidenza, cioè:
ü capacità di riconoscere quando si ha fame e quando si è sazi;
ü capacità di mangiare ciò che si vuole liberamente;
ü capacità di mangiare senza attribuire al cibo la funzione di conforto;
ü capacità di riconoscere i segnali fisiologici sulla quantità di cibo da assumere e il momento in cui assumerlo.
Negli ultimi trenta anni è aumentato il numero degli Autori che si sono occupati dei DCA, di pari passo con la sempre maggiore diffusione di tale problematica, che tuttavia affonda le sue radici nella notte dei tempi, dal momento che già il filosofo Aristotele e il medico Galeno in epoca classica parlavano della correlazione tra buon appetito ed equilibrio umorale.
I molteplici studi condotti dagli anni Ottanta nelle società occidentali e, successivamente, in quelle occidentalizzate, hanno sempre più evidenziato come i DCA assumessero l’aspetto di problema sociale e quanto la loro eziologia fosse imputabile, almeno in parte, al condizionamento massmediatico.
Molte ricerche hanno infatti, dimostrato come nei Paesi in cui il modello femminile predominante è quello tradizionale non esiste l’anoressia, la bulimia, né tantomeno l’ortoressia. Come asseriscono Trombini e Baldoni nel libro “I disturbi psicosomatici” (Il Mulino, 2001) é così, infatti, nella maggior parte degli Stati africani, dove sono completamente assenti i DCA. Inoltre, laddove ancora le madri sono abituate a portare i loro piccoli costantemente con sé attaccati ad un marsupio non si presentano disturbi psicosomatici precoci quali dermatiti atopiche e asma.
Lo psichiatra Fausto Manara nel suo recente libro “Con gli occhi dei figli”(Sperling & Kupfer, 2008) cita un’interessante ricerca realizzata all’inizio degli anni Duemila nelle isole Figi. Lo studio prevedeva due fasi di indagine: la prima quando ancora, alla fine degli anni Novanta, la televisione non era tanto diffusa tra gli abitanti di quelle isole. La seconda fase della ricerca fu fatta tre anni dopo quando era avvenuta una diffusione capillare del mezzo televisivo.
In questa seconda indagine emerse, al contrario che nella prima, l’esistenza rilevante di disordini dell’alimentazione determinati dall’emulazione dichiarata dei protagonisti degli spettacoli televisivi.
Anche le ricerche effettuate in Cina e in India con la divulgazione del modello femminile occidentale dimostrò la medesima influenza dei mass media sui comportamenti alimentari.
Attualmente, con l’avanzare del modello salutista e con il dilagare del fitness e del timore di malattie altre forme di disturbi alimentari, più subdole e mascherate, vanno via via diffondendosi, affiancando (e probabilmente superando) la presenza dell’anoressia e della bulimia nella popolazione.
Tra i tanti paradossi che contraddistinguono i DCA, anche la radice semantica dei termini può indurre a equivocare. Infatti, il termine “anoressia” deriva dalla lingua greca e letteralmente significa “assenza di fame” (dal pha privativo, più orexis, che significa “appetito”).
Tuttavia, mentre nell’anoressia ospedaliera e cronica di Mayer l’assenza di appetito è una caratteristica peculiare, nell’anoressia nervosa (di cui andiamo a parlare) NON C’E’ ASSENZA DI FAME!
Per quanto riguarda, poi, il termine “bulimia” anch’esso proviene dal greco. In dettaglio deriva dalle parole “bou” (bue) e “limein” che significa “mangiare”.
Come si può notare anche qui il significato è in parte equivoco dal momento che il termine può voler dire “ho fame come un bue”, oppure “mi mangerei un bue”.
Il termine “abbuffarsi”, invece, viene dalla radice meridionale “buffa” che significa “rospo”, ovvero”gonfiarsi come un rospo”. Con questo termine si designano sia le sindromi da abbuffate compulsive non meglio specificate, sia il disturbo da abbuffate notturne.
Infine, per rimanere in tema di definizioni semantiche, vogliamo rilevare che il termine “ortoressia” deriva anch’esso dal greco: più precisamente è formato da “orthos” che significa “corretto” e “orexis” che significa “appetito”.
Con il termine “vigoressia” si designa, infine, una forma di disordine alimentare anche detto “anoressia inversa”.
Va detto che questi disordini quasi mai si presentano in un’unica modalità, dal momento che mutano nel tempo e possono assumere forme miste, più insidiose di quelle “pure”.
Peraltro, in tutti i casi esiste una relazione disturbata con il cibo e l’alimentazione, , che va ad incidere sulle relazioni familiari, amicali, ecc.
Ma quale è l’origine psicorelazionale dei disordini del comportamento alimentare che possono manifestarsi nelle varie età della vita?
Diciamo che il cibo è il primo mediatore del rapporto con il mondo, ovvero con la madre o con chi ne fa le veci. Il neonato si rapporta inizialmente in modo istintuale al cibo, per poi venire progressivamente rinforzato o scoraggiato nei suoi comportamenti dalla risposta della madre.
Dal canto suo la madre si occuperà del nutrimento del figlio con modalità direttamente correlate alla sua personalità e alla sua relazione con il cibo. Molto spesso il cibo diviene il portatore di affetto. Ovvero, laddove la madre sia inadeguata o carente affettivamente, cerca di compensare attraverso l’alimentazione.
Il cibo diviene così un’arma nelle mani del figlio, che lo userà per attirare l’attenzione e per comunicare un disagio reale o un capriccio.
Altre volte il cibo viene proposto come premio e/o come conforto, a scapito della valenza essenzialmente fisiologica dell’alimentazione.
In tutti i casi in cui si manifesta un disordine alimentare, la persona presenta anche un rapporto disturbato con il corpo.
Nell’anoressia, a cui si associa di solito anche l’amenorrea (assenza del ciclo mestruale) l’alterata percezione della realtà impedisce di prendere coscienza dell’eccessiva magrezza corporea. Talvolta, la lotta contro la fame è tanto capricciosa da giungere alla soglia della morte .
In questi casi esiste malfidenza contro il cibo, visto come strumento genitoriale di manipolazione ed arma di ricatto, che si mostra a doppio taglio.
Nella bulimia, (che può anche essere una fase dell’anoressia) il cibo è una tentazione a cui si cede disgustosamente. Sentendosi disgustosamente in colpa, si ricorre ai mezzi più disgustosi per liberarsene. Ciò procura un ulteriore senso di colpa, che spinge a punirsi ulteriormente. In questo caso il peso è quasi nella norma.
Nelle abbuffate compulsive (non sempre seguite da pratiche per liberarsi del cibo in eccesso) il corpo è in soprappeso, ma la persona sembra non avvedersene o, comunque, tende a sottovalutare la questione. In questi casi esiste un rapporto di pseudoconfidenza con il cibo, ovvero con esso si cerca di riempire il vuoto, mai percepito come spazio libero di potenzialità, ma sempre sperimentato come baratro di afflizione e di solitudine. Il cibo assume la funzione di Paradiso perduto, che si cerca di ritrovare.
La relazione con il cibo si esprime in diffidenza, quando la ricerca di controllo sulla realtà spinge la persona ad assumere rigide pratiche salutiste nel vano tentativo di ridurre l’imprevedibilità della vita. Così, quello che all’inizio era un tentativo di migliorare la condizione fisica attraverso un regime alimentare più sano diviene progressivamente un protocollo sempre più ristretto di cibi “buoni” da preferire ai cibi “Cattivi”. In tal modo, vanno risentendone anche i rapporti familiari condizionati dal regime alimentare di uno dei membri, che si astiene dalla convivialità o guarda con diffidenza e ostilità gli alimenti considerati “pericolosi”. L’ortoressico , diversamente dal salutista equilibrato, si porta il suo cibo “puro” nelle riunioni tra amici e cerca di persuadere gli altri della bontà delle pratiche alimentari svolte. Ha perso la capacità di lasciarsi andare al piacere e, talvolta, oltre ad un ‘eccessiva magrezza, è contraddistinto da problematiche sessuali.
Altre volte la diffidenza alimentare è legata alla vigoressia, ovvero all’uso del cibo per divenire sempre più muscoloso. In genere, questo disordine alimentare contraddistingue gli adolescenti maschi. Viene interpretato semplicemente come desiderio di divenire attraente e forte per piacere alle ragazze. E, inizialmente, è proprio così. Nel tempo, tuttavia, l’intenzione originaria viene dimenticata e il ragazzo diviene un cultore in modo esclusivo dei suoi muscoli e del suo corpo statuario, a discapito dei rapporti sociali. Al cibo, unicamente iperproteico, vengono associati farmaci e massacranti sedute in palestra.
Fin qui sono stati descritti, seppur sinteticamente, le espressioni più comuni del comportamento alimentare disfunzionale.
Ma come si contraddistingue una relazione di confidenza con il cibo?
Il comportamento alimentare equilibrato presuppone quattro aspetti.
In primis, la persona sa distinguere quando ha appetito e quando è sazio. Questa capacità andrebbe educata fin dall’infanzia attraverso una minore rigidità negli orari e nelle quantità degli alimenti.
Un secondo aspetto riguarda la capacità di mangiare l’alimento che si desidera senza sentirsi in colpa Anche qui una educazione alimentare efficace dovrebbe insegnare ad assaporare gusti diversi, sapendone distinguere la complessità. A questo proposito è opportuno ricordare che i cibi troppo elaborati inducono dipendenza e alterano la capacità di riconoscere i segnali fisiologici della fame e della sazietà.
Un terzo aspetto, assai importante, concerne la valenza che si dà al cibo. Laddove il cibo assuma la funzione, pressoché esclusiva, di consolazione o gratificazione il rischio di sfociare in un disordine alimentare è maggiore. Infine, la persona che ha confidenza nella relazione alimentare sa riconoscere la quantità di cibo di cui ha bisogno fisiologicamente per saziarsi.
In conclusione, è essenziale sottolineare che il disordine del comportamento alimentare è sempre il sintomo esplicito di una richiesta di affetto, che la persona non è riuscita ad esprimere in altro modo o che il suo ambiente non ha colto. Perciò ogni modalità di trattamento deve esser orientata principalmente a saziare il vuoto affettivo o a renderlo, quantomeno, tollerabile.
Per Approfondire
DE CLERQ F., Tutto il pane del mondo. Cronaca di una vita tra anoressia e bulimia, Bompiani, 1990.
ERZEGOVESI S., GORINO A., Bella come sei:Vincere la bulimia, Edizioni San Paolo, 2004.
LENCIONI C., Counseling, narrazioni di malattia e disordini del comportamento alimentare, www.prepos.it.
MANARA F., Con gli occhi dei figli, Sperling & Kupfer, 2008.
MARZANO M., Volevo essere una farfalla, 2011.
TROIANI D., I disturbi alimentari, www.prepos.it.
TROMBINI G., Baldoni F., Disturbi Psicosomatici, Il Mulino, 2001.
D.ssa Daniela Troiani
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