Le EMOZIONI
COL GREMBIULE
A QUADRETTI
autobiografia multicolore
“Le sezioni della scuola dell’infanzia sono sempre più colorate perché sono multi-etniche.Nella scuola multicolore, così carina a vedersi, così soggetta a volte a cadere nella stereotipia, diviene di fondamentale importanza lo studio delle emozioni: cosa prova quel bambino o quella bambina arrivato/a per la prima volta in Italia e subito inserito a scuola fra tanti/e bambini/e che non comprende perché non conosce la lingua? Cosa prova quando cerca di giocare e non ci riesce? Cosa prova di fronte a quell’adulto che non riesce a capire, che gli altri e le altre seguono, ascoltano? Ma la mamma dov’è? Come fare quando scappa pipì? Come spiegare che sto uscendo dalla stanza perché ho bisogno del bagno? Questo è solo un piccolo esempio delle domande supportate da emozioni che si aggiungono a quelle che ogni bambino o bambina prova abitualmente o periodicamente, che modifica o che consolida. Se guardo a ritroso, dagli inizi della mia carriera fino ad oggi, mi rendo conto di aver dedicato tanta parte della mia vita a cercare vie di comunicazione, canali accessibili per uno scambio, a volte anche minimo quale via di partenza per una relazione educativa. C’è stata una costante ricerca di empatia con l’altro, adulto/genitore e/o bambino/a che fosse: nei piccoli per aiutarli a crescere in modo armonico, negli adulti per stimolare la condivisione di obiettivi e una collaborazione scuola/famiglia produttiva. Ho sempre pensato che ogni bambino e/o adulto avesse una chiave, una strada d’accesso più o meno nascosta che valeva veramente la pena di cercare per trovare un punto di partenza, anche piccolissimo, per una relazione educativa. L’essere accoglienti e il predisporre e improvvisare modalità di accoglienza sono determinanti nei territori con flussi migratori dove spesso bambini e bambine “nuovi/e” arrivano anche nel corso dell’anno scolastico e a volte passano come meteore verso altri luoghi più convenienti alla famiglia e spesso come meteore ritornano”.[1] Riprendere in mano questa mia riflessione di tre anni fa, mia ha portato ancora più a ritroso nel tempo, a 25 anni fa, quando mi trovai per la prima volta a contatto con la realtà di un bambino straniero che proveniva dal Marocco. Non parlava la nostra lingua, ma io e i compagni e le compagne, facevamo del nostro meglio per farlo sentire a suo agio, ci aiutavamo con un parlare molto espressivo, visivo, che gli permettesse di sentirsi parte del contesto... ma poi i nodi vennero al pettine perché il piccolo fece pipì addosso e a nulla valsero i nostri sforzi, mio e della collaboratrice, per convincerlo a lasciarsi cambiare. Il bambino piangeva disperato e solo con l’aiuto del padre capimmo poi che in quel momento stavamo veramente parlando due lingue diverse, pur con la buona volontà di ambedue le adulte che cercavano di fargli capire quanto sarebbe stato bene asciutto: il suo hic dixit in quel momento nasceva dalla ritrosia a mostrarsi spogliato ad estranei, che traeva origine dal suo contesto socio-culturale di provenienza. La mia autobiografia “scritta” qui, si era scontrata con la sua che era stata “scritta” là, in un paese lontano dal nostro e tanto diverso per usi e costumi. In seguito sono arrivati altri bambini stranieri, la scuola si è attivata per accoglierli; ho frequentato alcuni corsi di formazione dal momento che gli stranieri di diverse etnie, ormai, facevano parte della mia realtà e della nuova realtà e gradualmente è mutata la mia prospettiva ed ho iniziato a non dimenticarmi mai della loro autobiografia. All’inizio del fenomeno avevo cercato di preoccuparmi più del lato tecnico, organizzativo, logico, razionale, di come superare le barriere linguistiche e avvicinarli col contesto di vita della scuola dell’infanzia alla lingua 2, di come inserirli nei contesti, ma la preparazione e la sensibilità delle persone che mi hanno aiutata a formarmi nel campo dell’intercultura, mi hanno permesso di sentire lo spessore del problema, problema loro e mio, mi hanno resa consapevole del fatto che se volevo aiutarli a crescere, dovevo acquistare una capacità empatica migliore per migliorare le relazioni del gruppo. Ricordo ancora ad un corso, la lettura di uno scritto tratto dal diario di vita di un’immigrata adulta arrivata in tenera età in cui raccontava del suo ingresso nella scuola del nuovo paese ed era struggente il senso di solitudine, di precarietà che ne emergeva: ho capito che dovevo mettermi veramente nei loro panni per capire cosa stava avvenendo dentro di loro, toccare e tastare quel senso di disagio che a volte hanno bambini e bambine del nostro paese all’ingresso delle scuole moltiplicato all’infinito dall’essere straniero, dall’essere privato del tessuto sociale d’appartenenza fino ad allora, dal non rendersi conto di quello che sta avvenendo intorno, dal non poter esprimere bisogni e desideri in quella lingua così diversa da quella parlata dalle persone intorno fino a poco tempo fa. E mi pareva di sentire le loro mute domande interiori: “Come fidarsi di quell’adulta estranea? Cosa starà dicendo? Sorride... forse ha intenzioni amichevoli, ma a volte pare seria: ma cosa starà dicendo?”- Adesso molti bambini le cui famiglie provengono dall’estero, sono nati in Italia, arrivano a scuola che già parlano italiano e le difficoltà di lingua spesso sono più con le famiglie, anzi generalmente sono i bambini stessi i mediatori culturali scuola-famiglia, ma nel periodo dei primi arrivi è stato faticoso da ambedue le parti trovare il giusto punto d’incontro linguistico.Quando le bambine e i bambini hanno difficoltà linguistiche e/o agiscono con eccesso di intraprendenza e con disinvoltura estrema nel nuovo ambiente, l’insegnante diviene mediatore di gioco, ne cura l’approccio aiutandoli ad inserirsi e ne cura il percorso facendo attenzione alle relazioni; si rischia altrimenti che togliere giocattoli dalle mani divenga il modo più immediato e pratico di soddisfare il bisogno di giocare, si rischiano conseguenti malumori di compagni e compagne, pianti e grida e mani veloci che restituiscono anche con gli interessi, e il nascere di vari giustizieri che intervengono in favore dell’uno o dell’altro. Si può innestare insomma una spirale di tensioni, una scrittura dell’ autobiografia di ognuno e del gruppo che lascia l’amaro in bocca, anche perché non sempre questi ingressi avvengono all’inizio dell’anno scolastico per cui si inizia un percorso tutti insieme: di questo si deve tener conto prima con un buon mixer di cura delle relazioni che porti al miglioramento e non al deterioramento del clima relazionale. Subentrano sempre i modi tranquillizzanti, coinvolgenti dell’insegnante, ma anche il rimprovero e l’insegnamento al bisogno e con molto buon senso e senso della misura per quegli alunni arrivati da poco e a volte in lite con compagni e compagne che si sentono spesso, se sale la tensione, a loro volta invasi e privati di qualcosa. Subentra anche un’azione di coinvolgimento, sostegno, incoraggiamento, per quei bambini e quelle bambine che rimangono invece bloccati nei confronti del nuovo ambiente, che hanno bisogno di essere aiutati per un approccio di partecipazione o almeno di permanenza positiva all’inizio. Sono molto importanti l’osservazione e l’ascolto di tutti i messaggi che bambine e bambini nuovi inviano per capire quali bisogni sono preminenti in fasi così delicate come l’ingresso e l’accoglienza che possono connotare l’esperienza in modo indelebile e pregiudicare il percorso. Fanno parte dell’accoglienza anche il coinvolgimento del gruppo con la presentazione della nuova esperienza da fare, la valorizzazione delle risorse in entrata, le spiegazioni anticipate per possibili comportamenti aggressivi determinati dalla rabbia di sentirsi fuori dal contesto e quindi la responsabilizzazione con la necessità di supporto e tutoraggio dei singoli e del gruppo. Fa parte dell’accoglienza il condurre alunne e alunni ad una maggiore sensibilità ed empatia per comprendere quali difficoltà può creare negli altri e nelle altre non capire quanto viene detto, quanto può essere forte la voglia di giocare senza poter chiedere giocattoli e compagnia, voler giocare con qualcuno che non vuol saperne di te e ti manda via, aver perso tutta la trama delle amicizie e doverla ricreare di nuovo. I bambini e le bambine molto spesso capiscono la situazione perché si sta parlando di fatti a loro noti e non della luna, fatti che conoscono e che a volte hanno provato loro stessi o hanno vissuto per i loro amici e amiche, e nasce molto spesso quasi un senso di protezione, di adozione, diventano i tutor dei nuovi compagni e delle nuove compagne per cui le conquiste diventano partecipate, di tutti: quante volte ho sentito dire con voce stupita “Maestra, ...... ha detto una parolina!” oppure ancora più drasticamente “Maestra, ..... parla!”, oppure “Maestra, gioco con...., guarda un po’! Giochiamo bene!” e quante volte mi sono sentita rispondere “Bravi! Brave! È merito suo e vostro che l’avete aiutato/a: l’avete aiutato/a anche a giocare!Visto come è in gamba?” e piccoli e piccole si sentono importanti, gratificati, rivestiti di un ruolo importante che viene loro riconosciuto pienamente. E come si sente incoraggiato o incoraggiata a procedere chi ha fatto il passo in avanti e se lo è sentito riconoscere da altri: questo è anche toccare con mano, per chi ha ancora difficoltà d’inserimento che possiamo stare bene anche in quella realtà nuova, che c’è la possibilità per tutti e forse è il caso magari di mettersi in gioco. E da lì inizia una nuova parte di autobiografia del gruppo perché si cresce tutti insieme, impariamo a camminare tenendoci per mano. Questo è secondo me, il modo migliore per accoglierli perché si agisce su quello che ci accomuna veramente tutti, grandi e piccoli, del luogo o stranieri, di un paese o di un altro, cioè l’umanità di ognuno, il condividerla. I bambini e le bambine straniere che arrivano improvvisamente, non conoscono la lingua, ma imparano facilmente la L 2 in un contesto di vita come quello della scuola dell’infanzia, dove si gioca, si apprende facendo e si compiono tante azioni pratiche della vita quotidiana; si preparano un repertorio ampio anche per l’extra-scuola riuscendo spesso a supportare i genitori. Comunque è indubbio che all’inizio hanno perso la continuità con la loro autobiografia ed è a volte maledettamente difficile iniziare a scriverla di nuovo in quella terra straniera. Tante volte mi sono chiesta a quali spazi aperti erano abituati nella loro terra e se vivevano come costrizione gli spazi magari più angusti, a quali affetti importanti avevano lasciato, se si sentivano limitati nella loro autonomia dai maggiori pericoli ai quali dovevano fare attenzione, se il loro cuore e i loro pensieri erano da un’altra parte e se quello era luogo dove si rifugiavano nei momenti più duri. Fra le tante esperienze, mi colpisce ancora il ricordo di un bambino, venuto in Italia dal suo paese in guerra: non avevo mai visto un bambino che mangiava con quel gusto, tenendo il cibo ben stretto con le due mani di fronte alla bocca e le mani pareva fungessero da supporto, da spinta, da protezione. Mi ricordo il suo ampio sorriso con tante “finestrine”: era solare, e tutto il suo essere pareva la rivincita sulla desolazione. E’ sempre rimasto per me il simbolo di quanto a volte sia difficile spengere un largo e caldo sorriso. Se penso alla speranza, io la penso col volto di quel bambino e lo ringrazio tanto del significato forte che quella parola ha avuto per me dopo averlo conosciuto: è stato una meteora che ha lasciato nella mia vita tanti bei frammenti con la sua scia luminosa.
Ma è solo l’umiltà che ti fa toccare le lacrime dell’altro, che ti fa sentire così empatico da viverci nell’altro, nel suo modo di essere, di fare.(Neva Biagiotti)
[1] Le emozioni col grembiule a quadretti, Tesi per il diploma di Counseling Relazionale, di Neva Biagiotti.
[1] Le emozioni col grembiule a quadretti, Tesi per il diploma di Counseling Relazionale, di Neva Biagiotti.
Nessun commento:
Posta un commento