USCIRE DALLA PAURA
Problemi psicosociologici della violenza tra i sessi negli adulti e negli adolescenti e strategie relazionali preventive
“…Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”
(Dante Alighieri)
La violenza sulle donne è un fenomeno grave e di cui si parla sempre di più, dal momento che in una società che si definisce evoluta è inaccettabile considerare una categoria di persone a rischio proprio per la loro identità, in quanto sono ciò che sono. D’altronde, il sesso ci capita, non ce lo scegliamo e in base ad esso impariamo a vivere e a stare nel mondo.
Per esempio, i nostri gusti nei colori vengono guidati culturalmente fin dalla nascita. Alle femminucce viene assegnato il colore rosa e ai maschietti il colore celeste. Spesso questi colori vengono scelti per vestitini, copertine, camerette, giocattoli. Nessun neonato sceglie quale colore indossare. Chi lo accudisce, scegliendo per lui o per lei, gli insegna progressivamente quali sono i colori adeguati al suo sesso. Stesso discorso vale per i giochi. Mentre le mamme, in genere, preferiscono giochi tranquilli sia per i maschietti, sia per le femminucce, i padri trascorrono molto tempo con i figli per fare quei giochi sportivi, di lotta, di movimento fisico, che sembrano preferiti dai maschi e disdegnati dalle bambine. Dunque, in base al sesso in cui nasciamo riceviamo stimoli, comunicazioni, insegnamenti, che ci educano a preferire certi tipi di giochi, piuttosto che altri, certi tipi di vestiti piuttosto che altri, certi tipi di comportamenti piuttosto che altri. Anche il nostro modo di vivere le emozioni e le relazioni viene spesso educato in base al sesso di appartenenza. Per esempio, molti studi hanno dimostrato che i comportamenti aggressivi dei maschietti nella scuola materna sono più tollerati, di quelli delle femminucce. Anche la narrazione di storie è influenzata dal sesso di chi ascolta. Ai bambini si raccontano preferibilmente storie di mostri, di guerre, di pirati e alle bambine storie di fate e di principesse. Eppure la società è molto diversa e più complessa di quella di decenni fa e le regole sociali per gli uomini e le donne sono molto cambiate. Basti pensare alle trasformazioni subite dall’abbigliamento nel corso dell’ultimo secolo. Fino agli anni Sessanta del secolo scorso la donna che indossava i pantaloni era vista come una poco di buono, rivoluzionaria. Alla donna era imposta la gonna in qualunque situazione, sia che andasse a cavallo, sia che andasse in bicicletta. Coco Chanel che nei primi del Novecento aveva proposto l’uso dei calzoni per le donne, ebbe successo quasi esclusivamente tra le donne di spettacolo e le intellettuali. Attualmente, invece, è avvenuto un capovolgimento che talvolta rasenta il paradosso. L’uso della gonna a scuola, sul lavoro, nel tempo libero viene indicato troppo spesso come segnale sessuale. Ovvero, una ragazza o una donna che preferibilmente evitano di indossare pantaloni vengono etichettate come facili, leggere, esibizioniste. A questo proposito è interessante ricordare ciò che successe in un istituto agrario francese nel 2009. Una ragazza venne violentata da tre compagni di scuola. Ci fu un’assemblea voluta dal Preside per spiegare ai ragazzi ciò che era successo e capirne le opinioni. Alcuni ragazzi, a gran voce, affermarono che quella violentata era una “pétasse” (cioè una zoccola, una cagna), perché indossava la gonna. Da quel momento in Francia partì una rivolta silenziosa contro gli stereotipi e la mancanza di libertà femminile. Tutte le donne, ragazze e adulte, cominciarono a indossare di nuovo la gonna, come simbolo del diritto sacrosanto di vestirsi come più aggrada. Peraltro, l’abuso sessuale avvenuto sulla studentessa francese, rappresenta solo una piccola parte del fenomeno relativo alla violenza sulle donne. La questione, infatti, non può essere risolta, purtroppo attraverso l’uso o il non uso di un preciso capo di abbigliamento. Come è noto, infatti, le violenze sono subite anche da donne che indossano pantaloni, non giovani e tantomeno appariscenti e/o belle. Dunque per spiegare questi eventi è necessario valutare innumerevoli altri aspetti legati sia all’ambito socioculturale, sia alla persona e alla personalità, sia alla comunicazione e alla relazionalità. Dal punto di vista socioculturale si può dire che nel mondo Occidentale la donna ha potuto evolversi ed emanciparsi, sia all’interno della famiglia sia all’interno della società, anche grazie alla legislazione, che è andata via via assicurando nuove garanzie e tutele. Ciò ha permesso alle donne di assumere in entrambi gli ambiti ruoli di maggior rilievo e prestigio, potendo scegliere per sé in base alle proprie attitudini e preferenze e non più solo in funzione del ruolo di madre e moglie. Basti pensare che ancora fino a qualche decennio fa alle donne erano precluse alcune facoltà universitarie. Oggi le donne sono anche ingegneri meccanici presso note case automobilistiche di Formula Uno! Ormai le donne sono ovunque nelle scuole come insegnanti (in modo pressoché esclusivo), negli ospedali (visto che il 70% del personale sanitario è femminile), nelle attività ricreative, associazionistiche e sociali (dal momento che il mondo del volontariato, dell’approfondimento artistico e culturale, ecc. è soprattutto prerogativa femminile). Via via le donne hanno occupato posizioni sempre più importanti, anche perché spesso più preparate, competenti, affidabili e scaltre nell’autopromozione.
A tal proposito, una recentissima indagine O.C.S.E. (Salvo Intravaia,”Scuola: Inchiesta shock”, La Repubblica, 17 marzo 2013) realizzata nei Paesi Europei ha dimostrato che troppo spesso, soprattutto in Italia, a parità di preparazione scolastica, ai ragazzi vengono attribuiti voti inferiori che alle ragazze. Questo può compromettere sia l’autostima, sia le aspettative per il futuro, sia la definizione di un progetto esistenziale, ma anche (e forse più importante) la relazione tra maschi e femmine, che, come si vedrà, sempre più assume la forma di una pericolosa guerra in cui tutti risultano vinti e che inizia già nella famiglia, un tempo nucleo fondamentale della società e oggi specchio impietoso della frammentazione di essa. In passato la donna era sottomessa al marito, a cui doveva obbedienza in qualunque ambito della vita in comune, oltre che nell’educazione dei figli. E’ rimasto celebre, a tal proposito, l’aneddoto raccontato dal Premio Nobel Rita Levi Montalcini, che narrò nella sua autobiografia “Elogio dell’imperfezione”, come suo padre proibì a lei e alla sua gemella Paola di indossare due cappellini alla moda all’età di sette anni, semplicemente perché a lui non piacevano, e di come lei, disapprovando la remissività della madre in questa e in altre circostanze, decise in quel momento di non sposarsi per non doversi sottomettere ad un uomo. Oggi le cose sono ben diverse. La madre attualmente è una manager, iper‑organizzata, il supervisore delle decisioni e delle attività di tutti i membri della famiglia. Se, in passato, era paterno il divieto di abbigliamento, tipo di scuola e orari, attualmente il padre è un assistente, spesso solo una “neutra controfigura materna” come dice Claudio Risé nel suo interessante libro “Il maschio selvatico, Edizioni RED, 1998). Gli uomini di oggi, che hanno perso il ruolo di capofamiglia e l’autorità normativa, sono padri anche più presenti, più caldi affettivamente, ma troppo indecisi, poco solidi e poco abituati ad assumersi responsabilità. Questi uomini, padri affettuosi e compagni troppo poco protettivi e rassicuranti, trovano la loro identità, la loro solidità nella donna da cui sono scelti e che scelgono; questa donna è vissuta non tanto come consorte, ma in qualche modo come altra madre, da cui si aspettano amore e approvazione incondizionati. E quando la compagna si stanca di un uomo troppo fragile e poco intraprendente, l’uomo (che quasi mai riconosce in anticipo i segni del logoramento) vive come una deflagrazione interna, una rottura del Sé, dell’identità, oltre che direi un capriccio infantile che esplode in furia omicida per l’inaccettabilità dell’evento. La violenza, che vuole dimostrare alla donna la forza dell’uomo, altro non è se non un estremo indice della sua attuale debolezza, della perdita di ascendente e appeal. Come dice Michela Marzano: “Paradossalmente, molti di questi delitti passionali non sono altro che il sintomo del "declino dell'impero patriarcale". Come se la violenza fosse l'unico modo per sventare la minaccia della perdita. Per continuare a mantenere un controllo sulla donna. Per ridurla a mero oggetto di possesso.” (Perché gli uomini uccidono le donne?, La Repubblica, 27 aprile 2012). Cioè, la diffusione degli atti violenti contro le donne, oltre ad evidenziare la perdita della centralità del ruolo maschile, mostrano anche l’estrema difficoltà delle relazioni affettive e anche l’incapacità di uomini e donne di imparare a far tesoro delle differenze, mediandole e integrandole in un’armonica complementarietà, che possa arricchire entrambi. In effetti, sebbene qualunque forma di violenza, psicologica o fisica, sia sempre e comunque inaccettabile, pur tuttavia la scomparsa di questo fenomeno difficilmente potrà ottenersi in assenza di un ripensamento profondo sia della relazionalità dell’individuo con se stesso e gli altri, sia dei rapporti tra uomini e donne. Relativamente al rapporto della persona con se stessa e con gli altri, appare utile ricordare che già dagli anni Settanta è avvenuto un progressivo cambiamento delle aspettative del singolo verso se stesso e verso i suoi rapporti sociali e di coppia, stimolato sia dal femminismo, sia dalle progressive trasformazioni socioculturali, che condussero a non vedere più nel matrimonio un contratto esistenziale, bensì il coronamento di una relazione sentimentale scelta. Alla fine degli anni Ottanta Anna Oliverio Ferraris affermava: “L'amore nella visione delle nuove generazioni, non deve cristallizzare la personalità individuale, né limitare l'identità della persona; ovvero, ha il compito di permettere l'ulteriore evoluzione dell'individuo, a cui deve garantire la possibilità di esprimersi per ciò che è, sente e vuole essere” (Oliverio Ferraris, 1990). Questa convinzione è andata via via estremizzandosi, anche a causa della maggior precarietà valoriale e relazionale vissuta al di fuori della famiglia e a causa delle richieste sociali di prestazioni sempre più elevate ed efficaci. (Umberto Galimberti, Le cose dell’amore, Feltrinelli, 2005). Così, la coppia è divenuta, come già accennato, l’unico luogo confortante e l’ambito in cui la persona, giovane e adulta, si ritiene autorizzata ad esprimere anche il peggio di sé, in nome di un fantomatico diritto dato dall’amore. Di conseguenza, oggi spesso il partner viene percepito come oggetto di piacere e di soddisfazione. Attraverso l’altro si realizza il sogno di felicità e armonia assoluta. Al partner viene chiesto di accettare ogni forma di prepotenza, sopruso e capriccio, in nome di un amore che è, invece, solo un senso di possesso, l’infatuazione nei confronti di un’idea che quasi mai corrisponde alla realtà, perché la realtà interessa poco. Questa dinamica è molto comune tra gli adolescenti che vivono spesso emozioni dirompenti, che sembrano dilaniarli e da cui si fanno travolgere, sia a causa del gioco ancora poco conosciuto della chimica ormonale, sia a causa dell’inesperienza e della non educazione affettiva. Il primo equivoco relazionale in cui cadono gli adolescenti (e non solo) è quello di pensare che è amore quando fa male. Questa malintesa idea dell’amore induce a scegliere rapporti tempestosi e destabilizzanti, in cui la violenza fisica (schiaffi, calci, spintoni, morsi, ecc.) viene spiegata come segno di affetto e coinvolgimento emotivo. Il secondo equivoco riguarda proprio le modalità dello stare insieme. Spesso l’adolescente ritiene che amare significa non avere altri interessi all’infuori del partner e vivere in funzione del momento in cui si sta insieme. Tutto diviene poco importante di fronte alla persona di cui è innamorato e pretende che sia così anche per l’altro. Amare in questo modo comporta una fusione simbiotica, in cui la giovane coppa si immerge, troppo spesso cancellando ogni altro interesse e rapporto. Così la ragazza o il ragazzo diventano il perno centrale della vita. Ma quando la persona che si ama non è altro che un oggetto di dipendenza, non solo il mondo relazionale diventa un inferno, ma anche l'amore si dissolve e si trasforma progressivamente in disprezzo e odio. Il disprezzo è, in genere, caratteristico delle ragazze, che, logorate da un partner opprimente e possessivo, decidono di liberarsene. In alcuni casi il distacco è tanto improvviso o mal gestito che il ragazzo, incapace di esprimere a parole la sua frustrazione e la sua delusione e la sua incomprensione, rimane spiazzato. Inizia, allora, un pericoloso tunnel di tentativi per riavvicinarsi alla partner, che, nel frattempo, vorrebbe solo passare ad altre esperienze e talvolta diviene provocatoria, arrogante, denigratoria. Qui l’innesco della violenza è facilissimo e può dipendere da innumerevoli fattori.
Gli adolescenti sono figli di una società in cui la famiglia spesso non è e non può essere un rifugio in cui rannicchiarsi attendendo al sicuro che guariscano le ferite del cuore. I genitori sono riferimenti magari anche presenti, ma troppo poco solidi e spesso in balia delle proprie esperienze sentimentali fallimentari e/o della precarietà economica e lavorativa. Troppo spesso neanche si accorgono dei mali dei figli o tendono a sottovalutarli, per rassicurarsi. Se nella relazione affettiva l’adolescente aveva trovato una consolazione al vuoto familiare, con la rottura della storia può sentirsi precipitare in un pozzo senza fondo di smarrimento, un pozzo da cui pensa che non uscirà più. Infatti, nell’età adolescenziale la percezione del tempo è alterata, nel senso di una dilatazione temporale che riduce la capacità di proiettarsi positivamente nel futuro. Il futuro nell’adolescenza non esiste. Esiste solo oggi con tutte le sue emozioni tempestose. In più, un’altra emozione frequentemente accompagna la fine di una storia adolescenziale, una emozione di cui non si parla mai, ma che è lacerante, ovvero la vergogna. Quando una storia finisce può venire intaccata l’immagine di Sé e il senso di autostima, soprattutto in adolescenza, quando la prima è messa alla prova dai cambiamenti puberali e ormonali e la seconda è in formazione e spesso influenzata dall’approvazione del gruppo dei pari. Così, quando un ragazzo viene lasciato, può vivere un profondo senso di vergogna dovuto alla convinzione che la propria immagine di fronte a se stesso e agli altri è andata in frantumi. La percezione di aver fallito e/o di aver fatto una brutta figura di fronte al gruppo può attivare questa dolorosa reazione emotiva, dal momento che sembra esser indebolito il modo di apparire al contesto sociale di appartenenza. Per resistere sia alla tristezza per la perdita, sia al senso di imbarazzo, l’adolescente può caricarsi di aggressività, diretta verso se stesso o verso chi considera colpevole di quella umiliazione. In alcuni di questi casi può innescarsi la decisione impulsiva di vendicarsi o sulla ragazza o, per esempio, sul rivale in amore. Tutto ciò accade perché oggi più che mai l’adolescente non è capace di sopportare la frustrazione e la sua immagine di sé, troppo dipendente dalle conferme esterne, è vulnerabile e facilmente viene scalfita. Nonostante la vastità degli strumenti tecnologici a sua disposizione, il ragazzo non viene educato alla libertà e, dunque, al coraggio e alla forza d’animo. Il cordone ombelicale dei genitori, espanso in modo smisurato grazie al controllo telefonico e telematico, impedisce ai ragazzi di mettersi effettivamente alla prova e di sentirsi padroni di sé, dal momento che in molti casi questo controllo è oppressivo e ansiogeno, più che interessato a condividere, stimolare, sostenere e incoraggiare. La prolungata dipendenza psicologica ed economica dagli adulti crea un imprinting che favorisce l’insorgenza dell’aggressività e ostacola l’apprendimento dei modi di renderla un’energia motivazionale e costruttiva. Così, nel caso di una rottura affettiva, trovando nella famiglia soprattutto preoccupazione e timori quando non minimizzazione, il sostegno va cercato altrove. Il ragazzo in questi casi dovrebbe essere supportato da un gruppo di amici fidati e accoglienti, che riuscissero a farlo parlare, sfogare, piangere per tutto il tempo necessario. Invece troppo spesso gli amici tendono a mettere benzina sul fuoco, perché incapaci di reggere il dolore del loro coetaneo. L’unica proposta che riescono a formulare è quella di rivolgersi altrove, cercando un’altra storia, ma troppo presto, quando ancora la rabbia, invece che trasformarsi in energia costruttiva, diviene una mina vagante pronta ad esplodere alla prima sollecitazione. Ovvero, è sempre ingiustificata la violenza, ma talvolta è riconducibile ad un lungo percorso che, in un ambiente incapace di prevederla, ne ha favorito l’inevitabile verificarsi. Come già accennato, non c’è solo la violenza prodotta dall’incapacità di reggere e gestire efficacemente il distacco da una persona cara. Fin dall’infanzia le donne possono essere percepite come oggetti sessuali. Di certo la facilità di accesso alla pornografia ha abbassato l’età del primo contatto con il sesso, almeno quello voyeuristico. Il problema, più che etico, è educativo e formativo. La conoscenza troppo precoce di atti sessuali che nulla hanno di piacevolmente erotico e affettivamente appagante, può compromettere l’immagine che i ragazzi sviluppano nei confronti delle loro coetanee. Queste ultime, bisognose anch’esse di riconoscimento e approvazione, possono utilizzare l’atto sessuale come strumento per conquistare sia affetto, sia posizione sociale all’interno del gruppo. In altri casi, le ragazze, semplicemente non riescono a dire di no, ovvero non sono in grado di rispettare e far rispettare la propria volontà. Ciò è una questione strettamente legata con la consapevolezza di sé e la capacità di porre confini agli altri, dicendo no. Il problema è che quando l’autostima dipende dal riconoscimento degli altri, il no non è contemplato. Se c’è una cosa che nell’educazione attuale è rimasta identica al passato, è il fatto che raramente gli adulti riescono a vedere nel no dei bambini un’esigenza legittima. L’epoca del no, intorno ai due anni di vita, è sperimentata dai genitori come la fase dei capricci. In realtà, spesso quei capricci mettono le basi per sviluppare l’attitudine all’autodifesa, all’autoconservazione, all’approccio critico (non polemico o ribelle) alla realtà. La capacità di dire di no è quella che consente all’individuo di discriminare ciò che gli fa bene e ciò che gli fa male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. L’abitudine all’obbedienza cieca all’autorità, oltre a caricare di rabbia, forma persone dipendenti e incapaci di riconoscere ciò che è bene per sé e di perseguirlo.
Come dice Paolo Crepet: “L’infinita dipendenza tra genitori e figli impedisce la definizione dell’identità individuale e, dunque, la formazione della capacità di progettare e progettarsi” (I figli non crescono più, Einaudi, 2005, p 73) Così accade frequentemente che la volontà del branco prenda il sopravvento sulla volontà del singolo, perché quando si è in branco è già troppo tardi per dire di no. E altrettanto frequentemente può accadere che una ragazza, ormai sola con uno o più ragazzi, non sia in grado di dire di no, perché la paura produce la paralisi della volontà. E dopo, dopo la violenza che non è stata in grado di prevedere e prevenire, la giovane non riesce a liberarsi dal senso di colpa nei confronti di se stessa, dall’idea di esser complice del violento, di averlo in qualche modo provocato. D’altronde, quando la persona non abbia imparato a volersi bene, con estrema facilità tende a considerarsi colpevole, sbagliata, giustamente punita. Robert Stevenson affermava che il dovere che trascuriamo maggiormente è quello di essere felici. Il problema è che spesso l’individuo sceglie di lasciare libere le sue emozioni, facendosi travolgere e perdendo la capacità di gestire efficacemente la direzione della propria vita in nome di una autenticità, che è solo sopraffazione dell’altro e dispersione di sé. Nell’ottica qui descritta molti casi di violenza potrebbero essere previsti e prevenuti attraverso un’adeguata educazione affettiva che aiuti il singolo, a riconoscere le proprie emozioni e a canalizzarle efficacemente verso mete costruttive, nel rispetto di sé e della propria progettualità individuale. Oltre a ciò sarebbe auspicabile fornire strategie comunicative adeguate all’espressione dei propri desideri, delle proprie richieste e delle proprie opinioni, evitando toni provocatorii, o atteggiamenti remissivi, o gesti squalificanti. Ciò favorirebbe la formazione di un’identità forte e solida, capace di individuare i pericoli, i mostri e le situazioni rischiosamente ambigue, oltre che di tenersi lontani da stereotipi aberranti sulla femminilità e la mascolinità. Nel riconoscimento dell’importanza delle differenze come mezzo indispensabile per favorire una complementarietà costruttiva che integri le rispettive carenze, l’uomo e la donna potrebbero riscoprire la libertà relazionale nel piacere di condividere la concretezza del quotidiano, al di là dei sogni, romantici e spesso fumosi, e al di fuori di pericolose fusioni regressive e alienanti per la personalità individuale. D’altronde, il donare di sé all’altro può essere efficace benevolenza e autentica generosità solo quando le relazioni sono scaldate dall’affettività, dal desiderio di condivisione e comunione. Nell’affettività i principii non diventano dogmi e burocrazia, bensì valori, che consentono l’evoluzione individuale e collettiva. Ciò richiede sapienza, ma anche determinazione, quel saper render sacra e solenne una azione, un’offerta all’altro, che diviene donazione di sé per l’altro. L’individuo può darsi così solo nel caso in cui abbia consapevolezza piena di sé e dell’altro, di quali sono i propri confini. Ci vuole grande maturità e una personalità solida per non farsi tentare dal ricorso all’aggressività, alla sopraffazione e alla squalifica, , per ascoltare l’altro nelle sue affermazioni e nel suo silenzio, per stare proprio con lui, per dare a lui, per fare pienamente con lui nella coscienza di ciò che si fa, si dà e si può dare. Perché la consapevolezza di sé presuppone l’umiltà del riconoscere i propri limiti, i propri bisogni e le proprie vulnerabilità. In conclusione ci piace riportare una novella attribuita al Mahatma Gandhi, promotore e tenace difensore della non violenza.
Un giorno, un pensatore indiano fece la seguente domanda ai suoi discepoli:
- "Perché le persone gridano quando sono arrabbiate?"
- "Gridano perché perdono la calma" disse uno di loro.
- "Ma perché gridare se la persona sta al suo lato?" chiese nuovamente il pensatore
- "Bene, gridiamo perché desideriamo che l'altra persona ci ascolti" rispose un altro discepolo.
- E il maestro torna a domandare: "Allora non è possibile parlargli a voce bassa?"
Varie altre risposte furono date ma nessuna convinse il pensatore.
Allora egli esclamò:
- "Voi sapete perché si grida contro un'altra persona quando si è arrabbiati?
Il fatto è che quando due persone sono arrabbiate i loro cuori si allontanano molto.
Per coprire questa distanza bisogna gridare per potersi ascoltare.
Quanto più arrabbiati sono, tanto più forte dovranno gridare per sentirsi con l'altro.
D'altra parte, che succede quando due persone sono innamorate?
Loro non gridano, parlano soavemente. E perché?
Perché i loro cuori sono molto vicini. La distanza tra loro è piccola.
A volte sono talmente vicini i loro cuori che neanche parlano solamente sussurrano.
E quando l'amore è più intenso non è necessario nemmeno sussurrare, basta guardarsi.
E i loro cuori si intendono.
È questo che accade quando due persone che si amano si avvicinano."
Il fatto è che quando due persone sono arrabbiate i loro cuori si allontanano molto.
Per coprire questa distanza bisogna gridare per potersi ascoltare.
Quanto più arrabbiati sono, tanto più forte dovranno gridare per sentirsi con l'altro.
D'altra parte, che succede quando due persone sono innamorate?
Loro non gridano, parlano soavemente. E perché?
Perché i loro cuori sono molto vicini. La distanza tra loro è piccola.
A volte sono talmente vicini i loro cuori che neanche parlano solamente sussurrano.
E quando l'amore è più intenso non è necessario nemmeno sussurrare, basta guardarsi.
E i loro cuori si intendono.
È questo che accade quando due persone che si amano si avvicinano."
In fine il pensatore concluse dicendo:
- "Quando voi discuterete non lasciate che i vostri cuori si allontanino, non dite parole che li possano distanziare di più, perché arriverà un giorno in cui la distanza sarà tanta che non incontreranno mai più la strada per tornare."
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BIBLIOGRAFIA
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